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Rassegna stampa [ARCHIVIO ANNI PRECEDENTI]

(MEZZOEURO)
La grande opportunità

6/12/2003

Il progetto della lista unitaria per le elezioni europee e, più in generale, il lavoro di scomposizione e composizione della coalizione di centrosinistra intorno ad una grande aggregazione riformista, rappresenta una opportunità importante per i socialisti che hanno finalmente l’occasione di tornare protagonisti. Dopo un decennio di mancanza di ruolo e di iniziativa, oggi, per i socialisti è concreta la possibilità di riacquistare centralità lavorando attivamente al progetto per la costituzione di una casa comune per tutti quei riformisti che hanno la stessa idea di Europa e sono mossi dai medesimi valori di libertà, di giustizia, di solidarietà. Del resto la nuova frontiera è coerente con la lezione di Pietro Nenni che vedeva l’azione riformista e riformatrice come un grande movimento di popolo che tende ad allargare, e non certamente a restringere, il suo campo di alleanze e i suoi orizzonti. La sfida è ambiziosa perché riguarda un gran numero di elettori che fino ai primi anni novanta votavano socialista e poi hanno imboccato strade diverse. Per questo è opportuno muoversi svolgendo due tipi di analisi: una che abbia riferimento al quadro internazionale e l’altra a quello interno. In Europa tutte le famiglie socialiste sia pure con le proprie peculiarità e le proprie differenziazioni interne, anche marcate, sono collocate nel gruppo progressista e riformista del PSE. In Italia le prospettive unitarie per il futuro devono fare i conti con i contrasti del passato e con le sue ferite anche profonde che derivano dai rapporti tra i due maggiori partiti della sinistra. La cosiddetta questione socialista, del resto, ha occupato le analisi più o meno efficaci di molti dirigenti politici, politologi e storici. Da ultimo, sull’argomento, si è impegnato Piero Fassino che affronta con coraggio, nelle pagine del suo libro “Per passione”, i rapporti tra i due partiti. Egli con nettezza sottolinea come all’inizio degli anni ottanta il PSI sia capace di interpretare “le domande di dinamicità di una società che cambia e che chiede alla politica di stare al passo” a differenza del “PCI che invece vede nei cambiamenti un’insidia anziché un’opportunità e si arrocca in un atteggiamento difensivo che ne ridurrà influenza e credibilità politica”. L’analisi del segretario dei Democratici di Sinistra è coraggiosa e valorizza l’azione di un partito capace di capire i cambiamenti della società e di porsi nei confronti di essi con lungimiranza sposando una impostazione riformista che, invece, era distante dalle analisi e dai comportamenti di non pochi dirigenti del PCI di allora. Per la verità il PSI non scopre il riformismo soltanto durante la segreteria di Bettino Craxi. La storia gloriosa dei socialisti è ricca di riforme, non soltanto proclamate, ma realizzate con coraggio e con determinazione: dalla riforma agraria, al suffragio universale, dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica alla riforma urbanistica, dal miglioramento della sanità pubblica allo statuto dei lavoratori, dalle riforme istituzionali all’affermazione dei diritti civili e alla tutela delle garanzie individuali. Ma la valutazione che Fassino compie della gestione Craxi ed in particolare della fase che inizia con la conferenza programmatica di Rimini del 1983 sui meriti e sui bisogni deve essere incoraggiata e apprezzata assai positivamente soprattutto se confrontata con i giudizi sprezzanti che in quel periodo il portavoce di Enrico Berlinguer formulava sul segretario del PSI. Il PSI di quegli anni era un partito moderno e innovativo. Rimini ha costituito certamente un tentativo importante anche se purtroppo non è decollato anche a causa del sovrapporsi sulla linea modernizzatrice di un’altra più pragmatica e più prosaica, assolutamente sfornita di spinte ideali e di impegni riformatori o di suggerimenti provenienti dai settori più vivi e attivi della società. Questa seconda linea ha cercato di utilizzare al massimo i benefici derivanti dalle posizioni di Governo ed ha trasformato il partito in macchina che gestisce potere, che lo dispensa, lo promette e minaccia anche di toglierlo. Questo nuovo modo di fare ha appannato l’immagine del partito che ha iniziato a non produrre politica, ha offuscato la sostanza della sua struttura, che si è, via via, trasformata da elemento di movimento, di progresso, di spinta e di novità sociali e culturali in residenza di posizioni conservatrici e stabilizzatrici. Ricordare i meriti di quell’azione riformista, senza, però, tacerne i punti di forte criticità, oggi è utile non soltanto per dispensare lodi e ricostruire responsabilità del passato, ma ancora di più per realizzare un futuro più roseo e con maggiori prospettive. Se, infatti, la sfida deve essere quella di dare vita anche nel nostro paese ad una grande aggregazione riformista che occupi quello spazio che nelle grandi democrazie europee è presidiato dai grandi partiti socialdemocratici e che consenta, in Italia, ai socialisti di tornare protagonisti, l’impegno deve essere anche rivolto a che i componenti del nuovo soggetto non commettano gli errori che furono fatali e determinarono la scomparsa del PSI. Il PSI, infatti, non fu in grado di reagire all’attacco di Tangentopoli sia certamente per la violenza che contraddistinse l’azione di una certa magistratura, ma anche perché quel partito era indebolito all’interno a causa della perdita di quella spinta ideale e di quella carica modernizzatrice che lo caratterizzarono nel corso dei cento anni della sua storia. A conferma di ciò, sta l’esempio di quei dirigenti socialisti che, pur avendo abbandonato la ribalta nazionale e limitato la propria influenza nella periferia e all’interno delle proprie comunità, continuarono ad essere apprezzati per merito di una coerente azione riformatrice che rimase il tratto caratterizzante del proprio agire e che permise di aumentare i consensi nonostante la mattanza giustizialista non risparmiò anche le loro persone. Per questo, nella fase attuale, diventa elemento prioritario la definizione di traiettorie capaci di attrarre giovani competenze e di stimolare l’impegno di energie nuove che siano espressione di una società che cambia, migliora e che chiede dirigenti intelligenti e capaci di governare i mutamenti garantendo maggiori opportunità e maggiori diritti attraverso la promozione di confronti, di discussione e di partecipazione. E questo obbiettivo deve essere centrale nell’azione dei riformisti sopratutto nel Mezzogiorno dove il tessuto sociale è più debole e gli elementi degenerativi riescono con più facilità ad avere la meglio. Anche oggi, infatti, è concreto il rischio che la gestione del potere senza qualità, senza programmi, senza idealità culturali, affannosamente indirizzata alla ricerca di nuove presenze nel potere locale e regionale tolga smalto al tentativo di provocare svolte politiche di indirizzo e di comportamento con la conseguenza che inizi una fase discendente verso pratiche di governo vecchio tipo. La preoccupazione è che attorno a noi e dentro di noi riprendano a crescere le piante, meglio le male piante che nel Mezzogiorno hanno radici profonde: quelle del trasformismo e del clientelismo che sono la negazione brutale della politica del cambiamento e della eticità della politica, che piace alle nuove generazioni, e determinano la rarefazione del dirigente politico intelligente, preparato, legato alle questioni sociali interessato ai dibattiti e ai movimenti culturali. E proprio da qui che deve nascere l’esigenza da parte dei riformisti di spingersi verso la riconquista di quei dati innovativi che hanno riempito la storia migliore del Partito Socialista Italiano, che va ricordata con orgoglio e riproposta in un impegno per il futuro che consenta di rinsaldare il dialogo con i settori più dinamici della nostra società provenienti dal mondo del lavoro, delle professioni, dell’università che, anche oggi come allora, più nella periferia che al centro, anche i nuovi partiti della sinistra non sempre riescono ad intercettare. E’ questa la nuova frontiera che dobbiamo conquistare. Una sfida impegnativa alla quale non dobbiamo rinunciare se vogliamo stimolare quella presenza laica e socialista che deve rappresentare il motore riformista di una nuova coalizione che guardi al futuro senza minimamente indulgere ed ammiccare ad un vecchio rapporto tra culture superate. Giacomo Mancini
 


 
 
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